In una fresca serata di ottobre, le sale private di Palazzo Pitti a Firenze brillavano alla luce delle candele. Gli ospiti sussurravano nell’attesa. Non stavano per ascoltare l’ennesimo madrigale o una messa sacra; stavano per assistere alla nascita di qualcosa di completamente nuovo.

Quella notte, Euridice di Jacopo Peri debuttò come parte delle celebrazioni nuziali per il re Enrico IV di Francia e Maria de’ Medici. Sebbene modesta rispetto agli standard operistici moderni, fu rivoluzionaria. La musica scorreva con il ritmo dell’italiano parlato, la storia si svolgeva come un pezzo teatrale e, per la prima volta, il dramma era sorretto quasi interamente dal canto.

Dietro le quinte, la Camerata Fiorentina — un circolo di poeti, musicisti e studiosi — sperimentava da anni. Credevano che la grandezza del dramma dell’antica Grecia potesse essere riportata in vita fondendo musica e poesia in un’unica forma d’arte espressiva. Peri, insieme al librettista Ottavio Rinuccini, trasformò questa visione in realtà.

Ciò che rese speciale Euridice non fu solo la sua novità, ma il modo in cui mise l’emozione al centro della rappresentazione. Il dolore di Orfeo, l’innocenza di Euridice, il finale agrodolce: tutto veniva trasmesso direttamente al pubblico attraverso la melodia.

Nel giro di pochi decenni, i teatri d’opera cominciarono ad aprire in tutta Italia, da Venezia a Napoli. Il formato si evolse, si ampliò e stupì, ma tutto ebbe inizio con quella serata intima a Firenze, quando un piccolo gruppo di innovatori osò cantare una storia dall’inizio alla fine.

Oggi, Firenze porta ancora con orgoglio l’eredità di aver dato vita all’Opera Italiana. Camminando per le sue strade, non si è mai lontani dagli echi di quel primo esperimento operistico. Questo ci fa pensare che talvolta l’arte più duratura nasce non nelle grandi sale pubbliche, ma in piccole stanze illuminate solo da candele, dove le nuove idee trovano la loro prima voce.

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